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Il reato era stato introdotto per scoraggiare chi ha – e usa – il potere di far prevalere chi non lo merita e che, generalmente, ha anche il potere di intimidire i pretendenti sconfitti, sì da scoraggiare, o addirittura impedire, la loro reazione in sede amministrativa
Avviata ad opera della Digos nel 2019, l’inchiesta “Università Bandita” – nel suo genere forse la più importante a livello nazionale – consentì di accertare che molte assegnazioni di cattedre e altrettante nomine universitarie erano gestite a tavolino con il sistema spartitorio tra taluni ‘baroni’ dell’Università di Catania. Seguirono, con grande clamore mediatico, le dimissioni dell’allora rettore Francesco Basile e nuove elezioni universitarie. Restarono coinvolti anche l’ex rettore Giacomo Pignataro e diversi ex direttori di dipartimento. Recentemente in sede dibattimentale sono stati chiamati a rispondere 51 imputati per cui la Procura ha chiesto 39 condanne, anche per il contestato reato di abuso d’ufficio.
All’ultima udienza, posto che l’art. 323 c.p.c. è abrogato per legge dal 25 agosto 2024, il Pubblico Ministero ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativa alla predetta abrogazione, come aveva già fatto il Tribunale di Firenze.
Questa vicenda provoca due minimali osservazioni.
La prima. Il sistema clientelare-spartitorio posto in essere dai docenti imputati non è affatto diverso da quello adottato da Palamara & Company per l’assegnazione ai magistrati ordinari, all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, degli uffici giudiziari più importanti. Ma l’art. 323 c.p., mentre era in vigore, è stato contestato soltanto ai professori universitari.
Perché? Inoltre, bandito Palamara dall’Ordine (in sede esclusivamente disciplinare) e dall’ANM, i suoi numerosi correi sono rimasti esenti perfino da qualunque sanzione disciplinare (di competenza del Procuratore Generale della Cassazione o del Ministro della Giustizia), come se nulla fosse avvenuto.
La seconda. La selezione dei docenti universitari e segnatamente quella dei titolari di uffici giudiziari deve avvenire mediante pubblico concorso, allo scopo di selezionare i più degni e meritevoli sotto ogni profilo (artt. 54 e 97 Cost.). Accogliendo le istanze dei Sindaci (“perfino di sinistra”) annichiliti dalla “paura della firma”, il Ministro Nordio si è intestato l’abrogazione, dal 25 agosto 2024, del delitto previsto dall’art. 323 c.p.c. Egli ha così ritenuto che l’osservanza dell’art. 97 Cost. fosse sufficientemente garantita dalla giurisdizione amministrativa: chi si senta ingiustamente …svalutato si rivolga al Tar competente, anziché al Procuratore della Repubblica!
Ha omesso tuttavia di considerare che, essendo difficilmente occultabile, il sistema clientelare può operare soltanto in concomitanza del metodo spartitorio: perché il metodo regga è necessario che interessati e controinteressati siano parimenti avvantaggiati e compromessi, sicché ciascuno di essi non possa far valere una virginale irreprensibilità. Inoltre chi ha – e usa – il potere di far prevalere chi non lo merita, generalmente ha anche il potere di intimidire i pretendenti sconfitti, sì da scoraggiare, o addirittura impedire, la loro reazione in sede amministrativa. Come si sente ripetere da Montesquieu in poi: «Perché non si possa abusare del potere, bisogna che […] il potere freni il potere».
Proprio per queste ragioni era stato prima introdotto dal Codice Rocco, e poi accuratamente limato dalla legge in conformità alla Costituzione, il reato di abuso d’ufficio, sulla cui base è stata infatti faticosamente costruita dal 2019 l’apprezzabile inchiesta etnea.
Ora con la sua abrogazione i numerosi docenti coinvolti riacquisteranno dignità e onore o aumenterà la sfiducia e lo sgomento dei cives verso le istituzioni? L’istituzione universitaria ritroverà il proprio prestigio o i docenti coinvolti resteranno “anitre zoppe”? Inoltre, essendo depenalizzata, non sarà favorita e incrementata l’attività clientelare–spartitoria nella gestione pubblica? È questo che volevano i Sindaci (“perfino di sinistra”) e il Governo nel decidere l’abrogazione dell’art. 323 c.p.?
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