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Nuovo Giornale Nazionale – PER SUPERARE LA CRISI CI VOGLIONO SERIETA’ DA PARTE DI TUTTI E SCELTE POLITICHE SERIE #finsubito prestito immediato


di Antonio Foccillo

In tempi così difficili e pericolosi, come quelli che stiamo vivendo, bisogna che ognuno faccia una riflessione e individui un percorso per tentare di uscire da questa situazioe pena la distruzione del nostro futuro.

Come si fa a restare inerti e apatici di fronte a un destino che sembra sempre più rischioso? C’è bisogno di un nuovo impegno affrontando tutti i probemi che stanno facendo perdere la speranza di un domani migliore per noi e per i nostri figli.

Non voglio fare il pessimista, ma se ci guardiamo intorno, dopo le sbornie della partecipazione, dello sviluppo, dell’Europa dei popoli e della democrazia c’è stata un’involuzione che ha prodotto una riduzione dei diritti e delle tutele e ha fatto fare un passo indietro all’umnaità.

La negativa evoluzione per la crisi economica, la pandemia e le guerre ha avuto anche un ulteriore effetto: ha distrutto nell’immaginario collettivo l’idea di un’Europa capace di garantire un futuro migliore per tutti i cittadini.

Per decenni abbiamo ritenuto che uno Stato sovranazionale sarebbe stato capace di aggredire quei nodi che, da soli, non avevamo saputo sciogliere. Con il passare del tempo, però, i comportamenti assunti nelle stanze sempre più lontane di Bruxelles e Francoforte hanno prodotto una frattura nella coscienza europea, poiché si è instillato il dubbio che quelle scelte non sempre rispondessero a un interesse generale e che, piuttosto, avessero una matrice “germanocentrica”.

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Il sospetto che fossero stati commessi non solo degli errori di valutazione, ma che alcuni processi destabilizzanti fossero stati determinati da colpe, se non da dolo o da cattiva fede, ha generato diffidenze e malumori.

E la fiducia nell’Europa è crollata ai minimi storici. La stessa Germania che ha imposto politiche di austerity è in una crisi paurosa che potrebbe di conseguenza creare possibili rischi per tutte le altre economie.

Di fronte a questa situazione occorre agire razionalmente. Noi non condividiamo le tesi di chi vuole “destrutturare” l’Unione e l’euro e che, magari, intravede nella Germania un nostro redivivo nemico assoluto, né di chi, al contrario, predica rassegnazione, considerando inutile ogni tentativo di riforma interna al nostro Paese, poiché le decisioni vengono, ormai, assunte altrove. Sia l’una che l’altra teoria hanno il respiro corto della propaganda, non sono lungimiranti e possono avere conseguenze ulteriormente negative sul fronte economico.

Diventa decisivo, invece, un intelligente riequilibrio dei rapporti e, soprattutto, dei poteri decisionali tra Europa, Stato ed Enti territoriali. A nessuno conviene demolire la comune casa europea, ma occorre ristrutturarla democratizzando sempre più l’esercizio delle funzioni, a partire dall’attribuzione di un ruolo più incisivo al Parlamento di Strasburgo per la definizione di politiche fiscali, economiche e di sviluppo che siano condivise ed efficaci.  Anche se l’utima vicenda della deliberazione sull’uso delle armi occidentali sul suolo russo ha dimostrato l’incapienza anche di questa istituzione.

Non solo: bisogna puntare, soprattutto, a una modifica strutturale di alcuni trattati, come quello relativo ai poteri e allo statuto della Bce, l’unica banca al mondo che nelle sue regole fondanti ha l’obiettivo di tenere sotto controllo l’inflazione. Una condizione che stride con quanto accade, ad esempio, negli Usa dove la Banca centrale correla la quantità di moneta da stampare al livello di disoccupazione: più quest’ultimo è alto, più risorse vengono messe in circolazione.

Altrettanto urgenti e necessarie sono le modifiche da apportare al Patto di Stabilità e, in particolare, all’incomprensibile e ingiustificato rigido parametro del 3% tra deficit e Pil e al Fiscal compact, tutte regole che hanno ingabbiato ogni possibile tentativo per la ripresa.

Così come, infine, sono urgenti sia l’applicazione della “regola aurea” –  e, cioè, lo scorporo degli investimenti dal calcolo del Patto di Stabilità – sia la definizione di un piano europeo di investimenti produttivi. Qualcuno può dire che esiste il piano Draghi, ma mi pongo una domanda: è realistico? Oppure resterà l’ennesimo libro dei sogni irrealizzabile e, chisuo in un casetto a impolverarsi?

È evidente che, per sostenere le ragioni di queste richieste, risulta indispensabile un rafforzamento del ruolo anche del sindacalismo europeo, a cui spetta il compito di rivendicare la creazione di una vera Europa sociale e di quello mondiale, per affrontare più efficacemente i problemi posti dal mercato globale e le ricadute negative della finanziarizzazione dell’economia.

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Oggi però le nostre società, proprio per l’assenza di partecipazione democratica vivono una realtà quotidiana in cui si è prodotto: distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo.

Sono gli effetti odierni della lunga crisi iniziata nel mondo nel 2007 e sull’altare dell’emergenza si è rischiato di immolare la democrazia europea, dove l’imposizione da parte dei burocrati europei della chiusura dello spazio per una vera democrazia compiuta con la costituzionalizzazione dell’austerità, blocca qualunque proposizione di modelli economici, sociali e politici alternativi.

In un Paese, come il nostro, in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili”, abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti. Per questo va perseguito ilrilancio produttivo della nostra economia che non può che essere orientato verso la qualità dei prodotti e dei processi su cui si è giocata la competitività e l’affermazione delle nostre aziende.

Lì dove ci sono imprenditori che mettono a frutto maestria, inventiva, innovazione, capacità, competenze, tecnologia, ricerca e, soprattutto, che accettano il rischio come elemento fondante dell’intrapresa, si hanno risultati eccellenti e il nostro Paese può vantare primati mondiali di tutto rispetto.

Per fare gli imprenditori, dunque, occorre avere buone idee e volontà di investire: il contrario di ciò a cui si è abituato un certo “capitalismo di relazione”, fondato solo sull’opportunismo e sulla certezza del tornaconto.

In Italia, inoltre, non sempre quei modelli positivi sono apprezzati e ai freni della burocrazia e ai limiti cronici del sistema produttivo si aggiungono anche critiche strumentali e nocive di chi usa il palcoscenico mediatico per altri fini.

Il nostro resta, comunque, un Paese a forte vocazione manifatturiera e ciò dovrebbe essere riconosciuto e valorizzato dai Governi nazionali. È fondamentale, dunque, che siano poste in essere tutte quelle iniziative che agevolino la creazione di impresa e che si concretizzino in una politica industriale efficace e paragonabile a quella adottata dai nostri concorrenti europei.

Perché ciò accada, è necessaria, innanzitutto, una capacità di analisi e di decisione che attiene all’autorevolezza dei Governi: l’attuale condizione di incertezza del quadro politico, in realtà, è un ulteriore elemento destabilizzante.

Così come, fattore fondamentale di rilancio sono le risorse. Se nel confronto europeo, che presuppone tempi non brevi e il superamento di contrapposizioni politiche e sovranazionali, si renderanno reperibili risorse anche a fronte del percorso di riequilibrio che abbiamo già parzialmente compiuto, queste vanno prioritariamente destinate a politiche di investimento.

Lo Stato, però, deve intervenire, intanto, per porre rimedio ad alcune storture e per rimuovere, per via legislativa, intoppi di natura burocratica che scoraggiano l’avvio di attività imprenditoriali.

Difficoltà di accesso al credito, problemi di sicurezza ambientale, carenza di infrastrutture, costi dell’energia esorbitanti, infine, sono le altre questioni nodali che vanno affrontate e risolte se si vuol dare al nostro Paese una speranza di sviluppo strutturato e credibile.

Il Paese potrà uscire dalla fase di recessione e riprendere la via dello sviluppo economico e sociale solo puntando a una forte sinergia tra sistema produttivo, conoscenza e cultura. La produttività delle nostre imprese deve trovare nella modifica dei processi e dei prodotti il suo fondamento determinato esclusivamente da un rilancio della ricerca e dell’innovazione.

Occorre intervenire in primo luogo su tre aspetti: sullo scarso livello delle risorse per la ricerca; sugli insufficienti investimenti in Ricerca e Sviluppo delle imprese e sul miglioramento della programmazione delle risorse europee e nazionali. In forte discontinuità con i tagli della spesa, operati nel recente passato dai vari Governi, appare urgente avviare una nuova politica di investimento in ricerca capace di far crescere il volume delle risorse finanziarie e il numero di addetti, a livelli almeno in linea con la media dei Paesi UE.

Il Governo deve puntare su un impegno forte per la promozione della scienza, dell’innovazione tecnologica e della competitività del sistema produttivo. Ciò può essere realizzato attraverso misure di sostegno capaci di determinare impatti positivi della ricerca in tutti gli ambiti sociali ed economici, analogamente a quanto avviene in altri Paesi sviluppati e non, specie in una fase di recessione economica.

L’impiego dei Fondi europei e nazionali in materia di ricerca debba trovare un coordinamento unitario, evitando fenomeni negativi quali il mancato impegno delle risorse, la polverizzazione degli interventi, le diseconomie e le sovrapposizioni.

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Questo non è avvenuto con le leggi di bilancio passate e non avviene con quest’ultima del governo Meloni. Sentire il ministro dell’economia parlare di ennesimi sacrifici per tutti, che poi sgnificano per i soliti noti, è veramente inacettabile. Anche perché fino ad adesso che li ha fatti? Se non solo i lavaratori e i pensionati e pochi altri.

La scelta del governo ancora una volta vuol dire continuare imperterriti nelle vecchie e stantie ricette che hanno fallito e creato queste situazioni drammatiche in cui viviamo.

A quanto la svolta?    

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